I dischi di Roberto Zanetti, pianista di lunga esperienza sono una garanzia perché nascono da una lucida onestà intellettuale, ossia il riconoscimento della «blackness» quale elemento necessario per un qualunque tipo di narrazione jazzistica. Roberto Zanetti è un libro aperto sulla conoscenza della musica e della cultura afro-americana e sull’importanza di quegli artisti dalla pelle d’ebano che hanno portato il jazz dall’essere una musica con forti accentazioni ethno-folk, e successivamente una manifestazione ludica di «negro-entertainment», ad una delle massime espressioni musicali del Novecento, fino a divenire una forma d’arte parificata per qualità e ricchezza compositiva alla musica eurodotta.


Un album come «Bud’s Power» nasce dalla consapevolezza, dallo studio costante e dalla collocazione dei fenomeni nel suo insieme e nel più congruo ordine di rilevanza. Per inquadrare meglio il personaggio Roberto Zanetti, dobbiamo fare un passo indietro fino al suo precedente album, «Mother Afrika», un disco di sintesi, di fusione e di sublimazione di tutti i derivati della musica afro-americana che il pianista descrive cosi, delineando gli assunti basilari del proprio pensiero: «Da una vita pensavo di realizzare un disco sull’Africa e le origini della musica jazz. Il tempo avuto a disposizione durante il lockdown ha consentito di realizzarlo. Ho sempre suonato blues, perché la ritengo la musica dell’anima. La prima volta che l’ho ascoltato, ho capito che era la mia musica. Sono convinto che la cultura afro-americana sia la radice della musica del XX e XXI secolo. Ho cercato di renderle omaggio attraverso la forma del call and response, che era all’origine dei primi canti africani, che si sono poi sviluppati attraverso i gospels, gli spirituals, il blues, il funk fino ad arrivare alle nuove forme espressive contemporanee. Ho elaborato per «Mother Afrika» una scrittura e una pronuncia attuale ed orecchiabile».

L’approdo a «Bud’s Power», sua ultimissimo lavoro sempre in quartetto, diventa la naturale conseguenza di un pensiero che scandagliando i meandri dello scibile sonoro afro-americano gli consente di realizzare forme espressive moderne e contemporanee di jazz mainstream pur attingendo a piene mani al repertorio di una della icone dell’era bebop. Bud Powel è stato colui che più di altri, insieme a Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Thelonious Monk ha tracciato le linee di demarcazione essenziali del jazz moderno, fornendo l’idea di struttura armonica e caratterizzando quel modus agendi, che a partire dagli anni Quaranta rivoluzionò la sintassi e le regole d’ingaggio dello swing pre-bellico. La scelta di Bud Powell, oltre che motivazioni artistiche, a detta di Zanetti, avrebbe anche delle implicazioni di natura umana: «Ho scelto di omaggiare Bud Powell – precisa il pianista – in quanto esponente di spicco del genere bebop: insieme a Charlie Parker e Thelonius Monk è una stella nel firmamento del jazz che ha influenzato la maggior parte dei pianisti moderni. Al di là dell’aspetto musicale, sono rimasto colpito dalla sua travagliata storia personale fatta di elettroshock, incomprensioni e continui ricoveri in ospedali psichiatrici.. Grazie alla semplicità del linguaggio melodico di Bud Powell, l’album ha al suo interno un repertorio accessibile a tutti. Il primo e l’ultimo brano sono brani che ho scritto dedicati a Bud Powell, il primo dal titolo piuttosto forte «Elettroshock» e l’ultimo «Come Close To Me” che mi auguro possano generare emozioni nell’ascoltatore, uniche e personali».

In «Bud’s Power», pubblicato dall’etichetta TRJ Records, Roberto Zanetti si avvale del supporto di Valerio Pontrandolfo sax tenore, Martino De Franceschi contrabbasso e Oreste Soldano alla batteria, oltre al fattivo contributo in alcune tracce (quelle di sua composizione) di due special guest: il figlio Matteo Zanetti al violoncello e Nicolò Sordo come voce narrante (Spoken Voice). Registrato al Digi Tube Studio di Carlo Cantini, l’album diventa una racconto in musica dell’artista e dell’uomo Bud Powell. Si ha l’impressione che la sequenza narrativa delle varie tracce sia la rappresentazione scenica del sound, ma anche delle vicende dell’iconico pianista amato, senza esclusioni, da quanti nel corso dei decenni hanno fatto del jazz la loro materia di vita e di studio. La perfetta conoscenza di Powell e l’analisi filologica delle partiture consente a Zanetti e soci di non incorrere in una semplice lettura calligrafa del materiale trattato o in un tributo manieristico e scolastico. Il quartetto scende in profondità, riportando in superficie tutta la bellezza e l’immediatezza del costrutto powelliano e lo restituisce al mondo degli uomini carico di nuovi elementi, non semplicemente decorativi, piuttosto lo ricontestualizza in una dimensione contemporanea senza mai snaturarne gli assunti basilari per eccesso di zelo e per mero desiderio di stupire.

«Bud’s Power» si apre con «Elettroshock», composizione di forte impatto che Zanetti dedica a Powell, toccando uno dei momenti più oscuri della vita dell’artista, ossia l’essere stato curato per delle forme inesistenti di pazzia, attraverso tecniche primordiali e poco risolutive. Un triste destino che per molti aspetti lo accomuna a Thelonious Monk, anch’egli vittima di errori sanitari ed accanimento terapeutico. La chiusura del disco è affidata all’altro componimento a firma Zanetti, quasi a voler proteggere ed incastonare le undici perle del repertorio del pianista newyorkese che costituiscono l’ossatura portante dell’album. Ascoltando «Bud On Bach», «Time Waits» o «Buster Rides Again» ci si avvede di quanto le composizioni di Bud Powel non abbiano perso la lucentezza ed il grado di penetrazione emotiva, merito del quartetto che le esegue con mano sicura e con oculato interplay apportandovi equilibrate variazioni tematiche. Passando per «Blue Pearl», «Sub City», «In The Mood For A Classic» e «Duid Deed» risulta difficile discernere quale possa essere la stella più brillante del firmamento powelliano, ma soprattutto quale di esse Zanetti e soci abbiano saputo «ricomporre» per l’occasione. Scorrendo tra le pieghe di «Monopoly», «Cleopatra’s Dream» e «Down With It» ci si ritrova immersi in un’ambientazione bebop da far invidia a tanti dischi dell’epoca, nonostante il mood e l’impianto strumentale depongano a favore dei un modernità a presa rapida. Perfino la celeberrima «She» scritta George Shering assume tutti i crismi dell’attualità pur conservando la sua aura di sacrale classicità. «Bud’s Power» di Roberto Zanetti Quartet non è solo un disco tributo o una dedica scolpita nella roccia, ma un album autenticamente bebop, merce assai rara in un momento di devianza creativa del jazz, di tentazioni germanico-scandinave e di contaminazioni a buon mercato.