Hank Jones, per quanto sia una figura monumentale nell’ambito della musica improvvisata del Novecento non ha mai raggiunto la nomea dei due fratelli minori; Thad Jones abile trombettista e cornettista, noto per i suoi arrangiamenti e le direzioni orchestrali ed Elvin Jones, innovativo batterista ed asse portante del miglior Coltrane. Eppure fu lui «l’anziano di casa», classe 1918, a spingere i due fratellini verso lo studio della musica e ad instradarli al momento del loro arrivo nella Grande Mela.

Hank la raccontava così: «Sono più vecchio di Thad e di Elvin e c’è una cosa che mi è rimasta impressa della nostra infanzia: facevamo delle piccole sessioni improvvisate. Naturalmente, era una cosa spontanea: non le consideravamo neppure jam session, Uno di noi iniziava a suonare e gli altri due si accodavano. Tutto questo andava avanti magari per ore, fino a quando nostra madre non ci buttava fuori di casa, ma ci divertivamo molto». La carriera di Hank è altrettanto ricca di storia e la sua padronanza della musica risulta oltremodo profonda e caratterizzata, se non superiore a quella dei due fratelli. In effetti, operava già sulla 52ª strada a New York prima che Elvin (di nove anni più giovane) e Thad (cinque) lasciassero Pontiac. Racconta Joe Lovano, che una volta venne chiesto ad Elvin cosa avesse alimentato il suo interesse iniziale per la musica e la composizione. «Ascoltavo mio fratello che modulava», rispose il batterista. I tre fratelli Jones hanno registrato insieme raramente, anche se nel 1958 realizzarono un album intitolato «Keepin’ Up With The Joneses» (ristampato dalla Verve nel 1999). Non esiste «mammasantissima» della nomenclatura jazz con cui Hank Jones non abbia suonato. Una curiosità: accompagnò al pianoforte perfino Marylin Monroe, mentre cantava «Happy Birthday To You» al quarantacinquesimo compleanno di John F. Kennedy. «A volte ho fatto audizioni per numeri di elefanti, cani e comici.» Raccontava il pianista. «La parte più interessante era suonare per i cantanti d’opera».

Al momento della registrazione di questi inediti, il 17 luglio del 1991, al Brassgroup Acireale Jazz Festival, Henry Jones Jr, detto Hank, aveva 73 anni ed era ritornato in auge da tempo, imponendo un modello di piano trio interattivo, che in quel periodo era diventato un modus agendi tipico di molti musicisti jazz. Si tenga conto che il pianista di Pontiac, dopo i fasti di fine anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta al seguito di innumerevoli solisti ed orchestre, aveva rischiato di oscurare la propria fama eclissandosi o finendo per essere «sepolto», come si legge in una vecchia intervista, sotto un lavoro istituzionale, redditizio e sicuro: «Per quanto riguarda il fatto che io sia stato«sepolto» negli studios, questo è vero a metà, in un certo senso. Tuttavia, lavorando nello staff di una qualsiasi stazione televisiva o radiofonica, si ha la possibilità di suonare un’enorme varietà di musica. Quindi non sei davvero sepolto; è solo che non sei più davanti al pubblico dei concerti. Le persone non ti vedono e quindi forse diventi una cosa«lontana dagli occhi, lontana dal cuore». Non si incontrano le persone faccia a faccia, ma il lavoro è interessante, e credo di aver imparato alcune cose, sono diventato più versatile ho ampliato il raggio d’azione musicale. Direi che sono un musicista migliore ora rispetto a quindici anni prima quando ho accettato l’impiego alla CBS».

Al netto di ogni deduzione logica o surreale congettura, la formula proposta da Hank Jones diventa paradigmatica e propedeutica ad un modello di piano trio, che dalla fine degli anni Ottanta aveva iniziato a farsi spazio nell’ambito del jazz moderno, affermando sempre di più un ruolo dominante come metodo narrativo all’interno delle dinamiche discografiche e concertistiche. Nella notte di Acireale Hank Jones, pur ruotando intorno al suo mondo, riesce ad ampliare lo spettro percettivo del jazz, allargandone i confini e sciorinando una sapienza idiomatica celata da una semplicità e da un’immediatezza comunicazionale che risuona come un rito ancestrale: il pianista del Michigan interpreta sé stesso, tributa Charlie Parker e Thelonious Monk, ricorre a qualche evergreen, sceglie J.J.Johnson e Joe Henderson per esprimere la sua anima latina. Il disco è costituito da dodici marcate impronte sonore che colmano un ampio range della storia del jazz, e non per la tipologia di partitura o struttura melodico-armonica scelta, ma per come il trio di Hank Jones li esegue, li ridisegna, li rivitalizza, mostrandoli sotto una nuova luce, ossia quella della contemporaneità dinamica, di cui solo taluni predestinati sono capaci. Il materiale inedito contenuto nel disco sembra che non abbia subito l’usura del tempo e perduto un minimo di lucentezza metallica: è vivo, lucido e tagliente come un’affilata sciabola sguainata dal fodero dopo molti anni. In fondo Hank Jones sapeva fare di necessità virtù: La sua musica rimane un amalgama enigmatico e imprevedibile di stili pianistici; probabilmente è l’unico sideman della storia del jazz ad aver registrato con Louis Armstrong (“What A Wonderful World») ed Anthony Braxton (“Seven Standards 1985, Vols. 1 & 2»).

Basta una mezza dozzina di note per avere la sensazione che le performance siciliane siano come fresche di conio, registrate qualche settimana prima e non rimaste intrappolate in un nastro magnetico per oltre trent’anni. E qui ritorna il concetto di piano trio interattivo, dove la gerarchia strumentale risulta appena accennata: Hank Jones si muove su un piano paritetico insieme ai due sodali: George Mraz al basso, che tratti diventa una sorta di alter ego del pianista-leader ed il batterista Kenny Washington a cui vengono concessi ampi spazi espositivi con assoli di batteria prolungati, i quali diventano propedeutici all’ingresso di Mraz che usa il basso come un vero strumento melodico, sviluppando il tema ed allargando gli orizzonti dell costrutto iniziale. I componimenti risultano tutti più dilatati e con un minutaggio superiore rispetto alle partiture originarie, tanto da favorire un interplay costante ed un’avvolgente circolarità dell’esecuzione. Le quattro facciate del doppio album in vinile, pubblicato dalla nuova Red Records di Marco Pennisi, sembrano racchiudere momenti differenti dell’evoluzione jazzistica, sia pure strettamente concatenati dallo stesso mood e dalle medesime regole d’ingaggio. Il primo blocco, praticamente la prima facciata, si sostanzia attraverso tre composizioni che fissano i punti di ancoraggio della serata: la prima a firma Hank Jones, «Interface», la seconda opera del fratello Thad Jones, «A Child Is Born», ed una terza scritta da Ann Ronnel, «Willow Weep For Me». Il gioco di squadra fra i tre sodali è sinergico, condiviso e suddiviso in maniera mercuriale, soprattutto sembrerebbe riprodurre alla perfezione le emozioni , gli umori, i silenzi e gli stati d’animo, nonché l’entusiasmo di una magica notte sotto il cielo di Sicilia.

La seconda facciata descrive alla perfezione quell’universo a cui Jones si era avvicinato, ma di cui non era mai diventato parte integrante, ossia il bebop, per lungo tempo anche la sua ossessione. Doppio omaggio a Charlie Parker con «Scrapple From The Apple» e «Moose The Mooche», intercalati da una versione «azzurrelucente» di «’Round About Midnight» di Thelonius Monk, pianista, quasi coetaneo, che Jones stimava e rispettava, ma che considerava altro da sé, difficile da suonare, talvolta anche da decifrare. Queste le sue parole: «Monk aveva uno stile armonico così unico che tutto ciò che faceva era praticamente suo. Se qualcun altro cerca di fare come lui, suonava innaturale». Lui lo suona, però, adottando lo spettro armonico di Art Tatum, più fluido e veloce. «Non mi sono mai considerato un pianista bebop.» Confessò Hank. «Almeno non un musicista bebop completo, come lo era Bud Powell. Sono arrivato a New York City alla fine, quando sulla 52nd Street tutto era già accaduto. È stato allora che ho iniziato ad ascoltare Parker, Gillespie e Monk». La forte attrazione per il Monaco si manifesta anche nell’incipit della terza facciata con «Blue Monk» che, insieme ad «I’ll Remember April» di Gene De Paul e alla sua «Wind Flower» costituisce un intermezzo scanzonato, vivace, a tratti divertito e caratterizzato da un interscambio magistrale con i due partner. Il mood ispanico-caraibico del pianista di Pontiac esplode in tutta la sua magnificenza sulla quarta facciata che contiene solo le lunghe versioni di «Interlude» di J.J. Johnson e «Recorda Me» di Joe Henderson, in cui George Mraz se la gioca quasi alla pari con il pianista leader e Kenny Washington si rivela come un accreditato signore dei tamburi.

Hank Jones viene considerato il punto di partenza della genealogia dei pianisti jazz della «scuola di Detroit»; fu lui ad aprire la strada a personaggi come Barry Harris, Tommy Flanagan e Sir Roland Hanna. Al netto di quanto si riporta nei libri di storia, egli è stato un pianista inarrestabile e multitematico, sia pure borderline, una cuspide a cavallo tra il mondo antico di Fats Waller ed Earl «Fatha» Hines e la modernità di Oscar Peterson, ma innamorato di Bird e Monk. Un uomo del Sud che all’età di 85 anni, come raccontano le cronache, durante un fine settimana faceva tre set per tre sere consecutive, con inizio alle 22.00 e per tutta la notte. Forse un po’ troppo anche per un musicista più giovane. Roland Hanna lo descriveva come «il nonno di tutti i pianisti, il quale sembrava imperturbabile, anche se ammetteva di non essere al 100% delle forze. Era determinato a rimanere sulla scena, mentre sotto la sua ombra cresceva una nuova generazione di pianisti jazz».

Francesco Cataldo Verrina