«Modern Art Trio» di D’Andrea / Tonani / Tommaso è un raccordo tra il passato recente del jazz, la rappresentazione plastica di un presente, dove ogni mutamento di stile e di rotta, in quell’abbrivio di anni Settanta, diventava futuro anteriore in breve tempo ed a presa rapida».

Sono fermamente convinto che la ristampa in vinile da tape analogico originale dell’album del Moderna Art Trio costituisca uno degli eventi discografici del 2023, pur essendo un’operazione di recupero e di restauro. In verità, quello che molti antichi cultori del jazz italico identificano come «Pregressive Jazz» costituisce una sorta di spartiacque o punto di rottura tra quell’universo musicale forse un po’ ingessato ed eccessivamente derivativo che nel nostro paese guardava ancora nello specchietto retrovisore e i dirottatori, ossia coloro che ambivano a nuove forme espressive ed esecutive, una sorta di «new shape of jazz», per alcuni aspetti simile al free form, ma basato su un concept dilatato che potesse andare oltre. Luca Bragalini nelle note di copertina scrive: «Gli addetti ai lavori con risolutezza rubricarono la musica dell’LP «Modern Art Trio» (1971) quale free jazz. La stampa che nel 1978 ebbe occasione di recensire la nuova uscita rinfocolò l’idea. Per alcuni versi, trascorsi alcuni decenni, ci sentiamo in sintonia con questa articolazione critica; l’etichetta di free jazz in fondo non è impropria, è solamente riduttiva. Certamente D’Andrea, Tonani e Tommaso si riconoscevano nell’avanguardia jazz di quei tardi anni Sessanta».

Sono molti gli attanti sulla scena che hanno dato una spinta propulsiva alla recente edizione del Modern Art Trio che, dapprima in CD ed ora in vinile audiofilo da 180 grammi a tiratura limitata, appaga tanti appassionati, da tempo alla ricerca di una copia fisica di questo disco che, nel corso dei decenni, ha finito per diventare un oggetto di culto. L’iniziativa, però, non avrebbe assunto forma e sostanza senza la tenacia di Angelo Mastronardi, musicista e produttore discografico, titolare della GleAM Records, il quale precisa: «Questa terza ristampa del Modern Art Trio è il frutto dell’incontro in tempi differenti tra il pianista impegnato nella propria ricerca e il produttore discografico che dal 2017 abita la mia curiosità. La prima volta che ho ascoltato il Modern Art Trio si è accesa la mia curiosità. Così ho acquistato una copia della prima ristampa (1978) su vinile e successivamente la seconda ristampa (2008) su CD. Ho sentito da subito una forte affinità con il suo suono avventuroso, libero e, al contempo, ricco di nuove logiche di organizzazione della materia sonora (…) Il mio interesse è stato inizialmente pianistico e perciò ho iniziato a trascriverne alcune composizioni e a cercare di decifrarne la logica interna, molto più complessa di quanto potesse sembrare ad un primo impatto (…) Sono trascorsi alcuni anni da questo incontro e quando nel 2017 la mia vita musicale ha virato verso l’avventura discografica, ho cercato un’idea di suono attraverso la produzione di nuovi esponenti del Jazz italiano ed internazionale (…) da questo punto in poi, si è verificata una felice e, mi piace pensare, non causale successione di opportunità, tra cui il ritrovamento di un nastro originale del master a cura dell’editore Luca Sciascia. Tutto questo mi ha portato a convincermi che l’amore per questo disco potesse trasformarsi in un’importante operazione di recupero storico (…) È così che a gennaio del 2023, abbiamo iniziato il lavoro di restauro e re-mastering eseguito da Jeremy Loucas presso Sear Sound a New York e l’elaborazione di una veste grafica arricchita, a cura di Gianni Rossi, già autore del restauro grafico della precedente ristampa».

Tutto il resto è cronaca di questi giorni, l’album, soprattutto l’attesissimo vinile, è stato distribuito e le prime reazioni risultano piuttosto positive. Rispetto al prima stampa, registrata in condizioni non proprio ottimali, sembra davvero di ascoltare un altro disco. Come riportato da Bragalini nelle liner notes: «La stampa specializzata di allora non si accorse di queste minute imperizie e salutò l’uscita con critiche entusiaste (particolarmente lusinghiera quella di Vogue). Il gentiluomo D’Andrea ancora oggi mostra la propria riconoscenza per questa operazione culturale. Il musicista D’Andrea è ragionevole supporre abbia avuto, sin dal primo ascolto del nuovo vinile, di che eccepire».

Registrato per l’etichetta Vedette Records il 17 & 19 aprile del 1970 al Sound Workshop di Piero Umiliani con la supervisione tecnica di Paolo Ketoff, «Modern Art Trio» vede in perfetta simbiosi ed osmosi creativa Franco D’Andrea pianoforte, piano elettrico e sax soprano, Franco Tonani batteria e tromba e Bruno Tommaso contrabbasso. L’ascolto dell’album, diventato un vero cult per gli appassionati del jazz d’avanguardia, abbatte le barriere architettoniche della musica seriale e di flusso, soprattutto oltrepassa la logora formula del piano trio standard (pianoforte, basso e batteria): i tre musicisti fecero ricorso ad altri strumenti allargando la scena sonora attraverso una serie di circonvoluzioni creative che vanno dall’essenzialismo minimalista alla forma più espansa della suite, grazie all’inserimento di flauto, sassofono, tromba e piano elettrico. Il lavoro di recupero del nastro originale è stato inequivocabilmente importante, specie oggigiorno, quando l’ascoltatore medio di jazz è abituato a tutti i re-mastering e re-editing di alta qualità proposti dalle etichette storiche come la Blue Note, la Impulse!, SteepleChase ed, in Italia di recente, la Red Records. Le parole di Luca Bragalini sono piuttosto eloquenti: «La storia di Modern Art Trio è assai più intricata della vicenda di tre giovani jazzisti che nel 1970 decidono di consegnare al vinile la loro unica opera omonima (…) Milano, 1978. Franco D’Andrea riceve una telefonata dal produttore Alberto Paleari il quale ha in cuore di ristampare il disco Vedette Modern Art Trio pubblicato dalla stessa etichetta nel 1971. Paleari, che tra suoi meriti ebbe quello di avvicinare D’Andrea alla musica africana (…) con quella ristampa infoltirà la schiera degli estimatori del trio; la prima pubblicazione infatti, era stata quasi solo appannaggio di collezionisti. Tuttavia i nastri della seduta del 1970 erano andati persi e l’unica via percorribile fu quella di creare un master direttamente da un vinile. Il critico Arrigo Polillo corse in aiuto prestando la sua copia che eppure mostrava il passare delle stagioni: la ristampa avrebbe ospitato qualche indesiderato toc. A questo si aggiunse che il tecnico del suono intervenne sull’equalizzazione (ne aumentò, ad esempio, il riverbero) alterando sensibilmente il suono originale». Per quanti volessero avvicinarsi al Modern Art Trio, va detto che con questo line-up (D’Andrea, Tonani e Tommaso) incisero solo l’album in oggetto. La storia fu breve ma intensa e decisiva per la carriera di Franco D’Andrea, come si evince dalla parole di Flavio Caprera, autore tra l’altro di un interessantissimo libro, “Franco D’Andrea un ritratto».

Scrive Caprera: «Il Modern Art Trio nasce ufficialmente a Roma tra marzo e aprile del 1968 per iniziativa di Franco Tonani e Franco D’Andrea. L’idea era di allestire un trio che desse un ordine razionale alla musica free e alla galassia sonora che vi gravitava intorno. Era come un salto nel buio e senza rete, un’esplorazione di terre incognite. Il contributo distintivo del Modern Art Trio alla sperimentazione jazz è l’impiego della serialità. Nel progetto Modern Art Trio non c’era nessun distacco dal jazz, ma tutt’al più qualche forma di contaminazione: la musica afroamericana era il punto di partenza di esperimenti anche audaci (la serialità e il sistema delle cellule intervallari) ma che cercavano nuove strade senza uscire dall’ambito del jazz. La melodia dei temi, la loro conformazione intervallare è quanto fornisce struttura alla musica del MAT. I tre si integrano e interagiscono con una sintonia vicina alla perfezione, grazie a molte ore di pratica quotidiana e ad un continuo scambio di idee. Pur nella sua breve vita, Il Modern Art Trio sarà per Franco D’Andrea il primo e significativo progetto musicale. È il luogo, o meglio la dimensione, dove D’Andrea trasporta i suoi esperimenti per mettere il sistema intervallare alla base stessa delle composizioni. L’approccio del pianista è polimodale e seriale, applicazione dei suoi studi su Schoenberg e Webern. L’improvvisazione domina nell’economia generale della musica del MAT, soggetta tuttavia a una disciplina ferrea, a calcoli progettuali che precedono l’azione musicale e la indirizzano. Modern Art Trio è un disco importante nella storia del jazz italiano ed europeo. Per la prima volta musica seriale e jazz conoscono una sintesi riuscita, con il rigore della serialità da una parte, dall’altra la libertà e l’irruenza del free».

Parliamo di un disco visionario ed anticipatore, in cui l’amalgama sonoro è mercuriale, equilibrato e conseguenziale, tanto da poter parlare di vero album concept, ma a differenza di taluni eclatanti fenomeni nati all’epoca sulla spinta propulsiva del primo Miles Elettrico, il Modern Art Trio operava nella limacciose acque della provincia italiana, dove ogni mutamento veniva recepito in ritardo e dove i mezzi per la diffusione di taluni dischi, specie quelli con il baricentro spostato in avanti, erano abbastanza modesti. Siamo nel 1970, e jazz e rock iniziavano scambiarsi promesse per l’eternità tentando una reciproca inculturazione per vicinanza e per affinità elettiva, quando non si trattava di vera e propria commistione sintattica oltre che semantica. I due generi erano oramai sul medesimo asse di quella musica che veniva intercettata da una generazione legata alla stagione del cosiddetto antagonismo, una sorta di underground ante-litteram che trovava nelle frange più evolute ed avanzate del jazz i suoi migliori paladini, nonché cantori di una chanson de geste sonora che avrebbe intercettato lo zeitgeist, dominando e marchiando a fuoco gli anni Settanta.

L’album si apre con «URW» che unisce regolarità tematica e movimenti angolari, fissando i punti di ancoraggio di quello che sarà il tipico pianismo di Franco D’Andrea basato su intervalli melodici e fughe trasversali, ma tutto l’album appare come una sorta di costruzione e di intelaiatura modulare su cui impiantare sviluppi strumentali di nuova concezione, anticipando perfino quelli che saranno taluni sviluppi stilistici implementati da Keith Jarrett e Chick Corea. Bragalini sostiene che «il puntuto tema di URW, in cui il pianoforte e il contrabbasso all’unisono disegnano una melodia eterometrica a singhiozzo, renderebbe orgoglioso Ornette Coleman». «Frammenti» è una ballata atipica e distaccata che si srotola sul tapis roulant di una melodia dissonante e abrasiva che ricorda anti-sentimentalismo monkiano, trasfigurato in una dimensione più moderna. In «Un Posto all’Ombra» entra in scena il polistrumentismo a volo libero di D’Andrea e Tonani ricco di timbri bruniti ed estremi. Molte conferme giungono dalle parole di Luca Bragalini: «Ma ‘Frammento’ altro non è che il fratello ormai guarito dagli incubi che affollano invece quel parente primo tema di ‘Un posto all’ombra’: si tratta della stessa melodia, ma in ‘Frammento’ gli intervalli sono ricondotti nell’ottava. Tuttavia il legame più stretto con la nuove tendenze del jazz statunitense emergono sul versante del timbro: questo, ancora di più della franchigia dal giro armonico o dell’amore per le melodie spigolose, era ciò che affascinava i musicisti del Modern Art Trio. «Non dobbiamo suonare in bianco e nero», era solito ammonire Tonani; il polistrumentismo in funzione squisitamente coloristica è la risposta chiara a questa ambascia».

Con «It Ain’t Necessarily So» assistiamo ad un breve e momentaneo ricongiungimento con la tradizione, ma senza mai uscire dalla linea di demarcazione tracciata all’inizio; soprattutto lo standard di Gershwin viene trattato con una modalità non contemplata dalla precedente agenda setting del jazz. Caprera parla di «trattamento poliritmico, sottolineato da un assolo di batteria. Anche questo pezzo è sottoposto al trattamento dei nuclei melodici». Con «Echi», che porta in calce la firma di Franco D’Andrea, s’instaura una formula desueta di piano trio, dove basso e batteria non si limitano al semplice comping ma si muovono su un livello paritetico rispetto al pianoforte, omettendo ogni vincolo di gerarchizzazione tradizione, mentre gli strumenti, a rotazione, diventano protagonisti e suggeritori al contempo. Flavio Caprera lo descrive come un «brano concepito a frammenti, politonale, con il pianoforte che detta le linee guida e una batteria poliritmica, avvolta da una pulsazione discreta del contrabbasso». «Beatwitz» è quasi un’estasi spirituale, dove il passaggio dall’immanente al trascendente si materializza sulla riverberante spinta di una religiosità pagana alla Pharoah Sanders. In conclusione possiamo dire che «Modern Art Trio» di D’Andrea / Tonani / Tommaso sia un raccordo tra il passato recente del jazz, la rappresentazione plastica di un presente, dove ogni mutamento di stile e di rotta, in quell’abbrivio di anni Settanta, diventava futuro anteriore in breve tempo ed a presa rapida.

Francesco Cataldo Verrina