“Due chiacchiere” con the italian Jazz pianist: Domenico Sanna


Classe 1984, nato a Gaeta (LT), Domenico Sanna è un pianista raffinatissimo ed affermato in Italia ed all’estero, che può vantare collaborazioni stellari con grandi artisti internazionali, tra cui Dave Liebman, Jeff Ballard, Steve Grossman, Bill Stewart, Peter Berstein, Joe LovanoEddie Gomez, Dayna Stephens, Logan Richardson, Gregory Hutchinson,  ed italiani (Gegè Telesforo, Roberto Gatto, Stefano Di Battista, Fabrizio Bosso, Francesco Cafiso, Gegè Munari, Daniele Tittarelli, Maurizio Giammarco, Dario Deidda e molti altri)


Vorrei partire dall’inizio della tua storia, da quando a 6 anni, a Gaeta città dove sei nato, hai iniziato a studiare pianoforte classico. Tra l’altro tu vieni da una famiglia di artisti, con una forte passione per la musica e il teatro, quindi sarà stato più facile. 

É stato più facile, e soprattutto penso di dover riconoscere molto merito alla mia famiglia che ha accompagnato la mia passione. Una famiglia numerosissima e molto unita, andavo a vedere le prove di un musical della compagnia ‘familiare’ la Compagnia Cajeta, con tanto di band dal vivo e i miei zii a suonare, cantare o recitare.

Body and Soul

A 18 anni ti trasferisci a Roma per studiare Jazz, nel 2006 ti diplomi all’UM (Università della Musica) con il massimo dei voti. Come mai la scelta di studiare Jazz? Ci parli un po’ di questo periodo? 

Intanto studiavo piano classico, nonostante fossi autodidatta riuscivo a suonare ad orecchio discretamente la musica diciamo Pop/Rock/Blues. Non ero un bravo esecutore di brani classici, infatti ad un certo punto, all’età di 16 anni, dopo l’ammissione al Conservatorio di Avellino, decisi di lasciare gli studi, pensando che non avrei mai potuto suonare nella vita. Ricordo benissimo che mio padre, dopo aver preso questa decisione, non mi parlò per mesi, pensandoci ora posso dire che è stato un bene, perché dopo questa reazione mi convinsi che ci dovevo riprovare. Devo fare una premessa, uno dei miei insegnanti da quando avevo forse 12 anni è stato Pino Jodice, grande compositore, pianista e arrangiatore napoletano. A me piaceva tantissimo proprio perché insieme agli studi classici mi faceva ascoltare del Jazz, o Fusion di qualità, solo che dopo un po’ Pino fu chiamato ad insegnare in un conservatorio, e quindi io cambiai insegnante. Più o meno un anno dopo aver smesso di studiare, un giorno Papà mi chiamò per dirmi che era insieme a Pino, che era venuto a Gaeta a fare una serata, e mi pregò di raggiungerli. Io andai e Pino mi disse di seguirlo a Roma, all’Università della Musica, una scuola prettamente improntata sul Jazz, dove insegnava. Fu così che a 17 anni ricominciai a studiare musica, andando 2 volte al mese a Roma. Poi a 18 anni mi sono trasferito definitivamente nella capitale, città che amo in modo particolare, e dove ormai ho vissuto per metà della mia vita. Furono degli anni molto belli, si studiava tanto “armonia” e per me fu una grande scoperta. Tra la tanta musica che ascoltavo, mi piaceva e mi piace molto Pino Daniele e le sue contaminazioni col jazz, blues, funk e la musica americana in generale. Da lì ho fatto un percorso diciamo inverso, studiando da dove venivano quegli accordi, quelle soluzioni armoniche o quelle ritmiche. Quindi partendo da Herbie Hancock o Miles o Zawinul, Wayne Shorter, Chick Corea, per arrivare a Charlie Parker, Bud Powell, Art Tatum, Errol Garner o Fats Waller .

Il tuo primo album da leader (Too Marvelous for Words per Tosky Records) in trio, lo registri nel 2010. Poi tante altre registrazioni e collaborazioni. Nel 2014 vai a New York, quasi una seconda casa per te, dove registri al Bunker Studios “Brooklyn Beat!”, in trio con Ameen Saleem al basso e Dana Hawkins alla batteria, che poi presenterai direttamente dal palco del Roulette Theater di Brooklyn. Un lavoro bellissimo e di alta qualità. Ci racconti qualcosa di questi progetti?

Vorrei raccontare un aneddoto per quanto riguarda il mio primo album: Too Marvelous for Words. L’ho registrato in Toscana, a casa di Nicola Bulgari, grande appassionato di jazz e nipote del fondatore della Maison del lusso. Ho registrato suonando su un pianoforte Steinway gran coda, costruito da Steinway in persona, un pezzo unico, insieme a me c’erano il maestro Giorgio Rosciglione al contrabbasso e Marco Valeri alla batteria. Il grande pianista Dado Moroni, che fece la recensione di questo mio primo disco, mi chiamò meravigliato per il bellissimo e autentico suono del pianoforte. E’ stata un’esperienza straordinaria. Tornando ad Ameen e Dana, ero già stato a New York prima del 2012, ma non li avevo mai incontrati, perché erano quasi sempre in tour tra Europa e Asia. Ameen lo vidi suonare la prima volta ad Orvieto, durante Umbria Jazz Winter, con il gruppo di Roy Hargrove. Sono stato lì una settimana perché anch’io suonavo, ero con il gruppo di Gegè Telesforo. Li andavo a sentire tutte le sere. Dana invece l’ho sentito suonare a Villa Celimontana nel 2012, insieme a Jeremy Pelt.  Gli inviai dei brani, per fargli sentire la mia musica e che cosa ero capace di fare, volevo convincerli a suonare insieme. Con mia grande sorpresa mi risposero dicendomi che gli erano piaciuti molto e così arrivarono a Roma per tre giorni a suonare all’Alexander Platz. La cosa incredibile è che abbiamo provato i pezzi insieme al soundcheck e poi via, subito a suonare. Sentivo una pulsazione che mi piaceva da morire e mi sono, diciamo, affidato al loro groove e swing e ho capito subito nuove cose, da come poter stare sul tempo a come approcciarmi al mio strumento. Da lì nasce Brooklyn Beat, inciso per Jandomusic, che registro a New York al Bunker Studios, 8 mesi dopo il primo incontro a Roma. Poi abbiamo girato molto insieme, facendo diversi tour negli anni e presentandolo poi anche al Roulette Theater di New York. Ameen ora è a Roma e continuiamo a vederci per suonare anche in questo periodo vuoto.

Come ho già detto, sei stato per molti periodi in America. Cosa ti ha portato e ti porta a fare una scelta del genere? E’ anche un modo di vivere o è solo finalizzato al tuo lavoro di musicista?  Tu ci vai da molti anni, anche se per dei periodi. Quanto ha inciso nel tuo lavoro suonare, fare concerti, poter frequentare artisti di livello mondiale e fare delle collaborazioni con loro

Tradizionalmente andare in America, e in modo particolare a New York, per uno che fa Jazz è come andare a fare l’università, con la possibilità di fare dei master. Lì hanno camminato i tuoi idoli e tanti altri ancora sono lì a suonare e creare. Nel 2014 andai a registrare un disco per il sassofonista Michael Rosen, con Mat Penman, Lage Lund, Bill Stewart e Ralph Alessi, al Sear Sound, storico studio di registrazione newyorkese, dove hanno registrato Frank Sinatra e Ella Fitzgerald tanto per fare due nomi; rimasi per più di un mese quel periodo e suonai un po’. Facemmo qualche data con Michael a ridosso della registrazione, così anche per provare la sua musica. Ricordo di aver suonato una sera con Dana Hawkins e Igmar Thomas al 55Bar nel west Village, Club insieme allo Smalls o Mezzrow e Fat Cat dove si suona fino a tardi, per cui la band che aveva finito di suonare al Village Vanguard o Blue Note o Jazz standard o Lincoln Center passava a fare ‘hang’ come si dice in newyorkese, in questi altri locali. Mi é capitato di vedere il gruppo di Tom Harrell, oppure Ambrose Akinmusire al Village Vanguard e poi finito di suonare trovarli allo Smalls Jazz Cub ad ascoltare un’altra band e bere un drink. La musica Jazz continua ad essere importante e c’è fervore, energia, sperimentazione, movimento e comunità.  E’ sempre un esperienza bellissima andarci, anche se devo dire che a me piace l’Italia e l’Europa come stile di vita.

Fare il musicista a New York non è una passeggiata. In Italia siamo abituati ad avere un certo tipo di considerazione riguardo la nostra professione, al contrario di quanto molti credono anche dal semplice immaginario comune. Ho l’impressione che dicendo ad una tua zia o amico o chiunque di fare il pianista qui in Italia risulti, in un certo modo, più ‘ammirevole’ che in America. Te ne accorgi anche dai trattamenti dei nostri teatri, club o festival di dove vai a suonare. Questo perché essere musicista in America può significare diventare Herbie Hacock, Winton Marsalis o Bjonce, ma é vero anche che si va suonare nel parco o nella metropolitana o fare 4 gigs al giorno per riuscire a pagare lo stile di vita Newyorkese.

 Questo d’altro canto fa si che il livello musicale sia unico ed incredibile.

Ormai da più di un anno siamo in lockdown, più o meno duro. Durante questo periodo, ognuno ha reagito a modo suo. Tra i tuoi colleghi c’è chi ha sfruttato questo periodo per studiare musica, chi ha preparare materiale per un nuovo disco o album etc. Tu come ti sei organizzato, cosa hai fatto durante questo tempo?

In realtà tutto quello che hai detto tu nella domanda. Sto trovando il modo di studiare giornalmente o quasi, sto scrivendo nuova musica e mi sto preparando a registrare un nuovo album probabilmente in quintetto. In questo periodo, almeno a Roma, non si è spenta la voglia di suonare e ricercare almeno per i musicisti. Essendo tutti più liberi, facciamo spesso delle session in casa o studio, con grandi e giovani musicisti che devo ringraziare visti i momenti bui dove, a causa della pandemia, è stata messa in pericolo e in discussione la tua professione. Quindi vedere un certo tipo di entusiasmo è stato vitale.

I dischi si possono fare meno male, sono tornato appena qualche giorno fa da Arezzo, dove ho suonato per il nuovo album di Daniele Germani per  Fresh Sound, con Joe Sanders, Francesco Ciniglio e Cosimo Boni. Francesco e Joe vivono a Parigi, mentre sia Cosimo che Daniele a New York. E’ stato abbastanza emozionante solo il fatto di poterci incontrare, venendo tutti da posti diversi

Teniamo duro che ce la faremo

Per concludere, quali sono i tuoi progetti attuali e quelli futuri (a parte la pandemia ovviamente), e se c’è il tuo sogno nel cassetto.

Attualmente faccio parte di band dove mi piace suonare, come quella di Gegé Telesforo o di Serena Brancale e dovremmo ripartire a breve. Per quello che mi riguarda registrerò un nuovo album che sarà per metà in trio e metà in quintetto, dove ci sarà qualche brano originale, ma vorrei suonare degli arrangiamenti che ho fatto su alcuni brani importanti del jazz, da Art Tatum a Shorter , o Mingus e Brad Mehldau. 

Danilo Bazzucchi