Menzella si concede alla citazione ma non cede mai al ricalco pedissequo, entra ed esce dal mondo di Berg senza rimanere intrappolato nella comoda riproposizione di uno schema costruttivo già predisposto, «patternizzato» ed in scatola di montaggio.

Nell’ambito della contemporaneità jazzistica, sovente sfilacciata, eterea, molliccia, contaminata e priva di tratti facilmente intellegibili, con «Dedicated To Bob Berg» di Gianfranco Menzella, il jazz ritrova tutta la sua «durezza» tangibile e l’urgenza di una fisicità audiotattile. Un distillato in purezza di post-bop contemporaneo che poggia il proprio concept formativo ed esecutivo sull’architrave di una solidità concreta e palpabile; nello specifico sull’asse un «motivo ispiratore» che trae linfa vitale dalla vena mai esausta di un sassofonista iconico, talvolta poco celebrato dalla cronache jazzistiche e difficile da collocare nella narrativa di un jazz ammansito ed eurocentrico: Bob Berg, con le sue trame sonore, la sua blackness ad avancarica, le corse a perdifiato, le intemperanze, le discrepanze e le intermittenze diventa lo scenario ideale su cui Gianfranco Menzella, sassofonista di lungo corso e dal ricco corredo esperienziale, costruisce una messa in scena dal forte impatto aurale evitando il clichè del tributarismo scontato e dell’idolatria bigotta, baciapile ed a basso costo.

Bob Berg aleggia nell’aria come un diffusore ambientale, ma sono Menzella ed i suoi sodali, Eugenio Macchia pianoforte, Carlo Bavetta al contrabbasso e Pasquale Fiore alla batteria, a riportare in auge l’epopea di un jazz dalle peculiarità inequivocabili, sia pur calato in un concetto di intermediazione e fruizione contemporanea: l’idioma bergiano è salvo, ma il modulo espressivo e talune regole d’ingaggio riflettono l’intero portato culturale e formativo di Menzella e soci che, attraverso una sinergica intersezionalità, riescono a ridare voce ad un coriaceo bop post-moderno, asciutto e diretto, ma soprattutto assai lontano da talune attitudini tipiche del jazz del web 4.0. Le rullate iniziali ed cospicuo flusso pianistico dell’opener «Angels», a firma Berg, accompagnano il fruitore in un’escursione metropolitana, in cui il sax di Menzella funge da guida informata; così come la successiva «Promise» di Chick Corea mette in luce la componente soulful del sassofonista lucano. Gianfranco si concede alla citazione ma non cede mai al ricalco pedissequo, entra ed esce dal mondo di Berg senza rimanere intrappolato nella comoda riproposizione di uno schema costruttivo già predisposto, «patternizzato» ed in scatola di montaggio.

Ne sono una dimostrazione lampante «Second Sight», sempre scritta da Bob Berg, ma rimodellata da Menzella con un’esposizione quasi rollinsiana, mentre «The Search» di Mike Stern assume le sembianze di un’esplorazione introspettiva in cui il musicista materano mette in luce le sue innate doti di balladeer. Le otto composizioni concatenate nel racconto del sassofonista lucano si snodano sull’humus di un terriccio alquanto fertile, ma che necessita costantemente di nuovi additivi creativi e concimanti per poter vivere nell’era degli agenti contaminanti. Per contro il tenorista evita di rimanere chiuso in una serra e di proteggere il proprio semenzaio ispirativo, ma esce allo scoperto sfidando gli elementi della natura e di cambiamenti climatici del jazz. «Summer Night» è un veloce innesco a presa rapida, calato forse nella più fedele dimensione bergiana riuscendo a tracciare, fra impennate e lampi di genio, le atmosfere di una focosa notte d’estate.

La dedica va a Bob Berg, ma Menzella è un poliglotta del sassofonismo post-bellico ed un profeta in patria dell’esaltante stagione del bebop, mentre, in taluni frangenti, dalle pieghe dell’album riaffiorano in superficie nuances e stille di spiritualità post-Coltrane, espletate nella convincente versione di «The Secret Life Of Plants» di Stevie Wonder che diventa un valido alimentatore della personalità multiforme del sassofono di Menzella, sorretto mutualisticamente dalla retroguardia ritmica e armonicamente dilatato da un pianoforte sempre in palla. «Dedicated To Bob Berg» si sostanzia sulla scortadi una tensione emotiva e pro-attiva costante: non c’è aria ferma, soprattutto non c’è compromesso con l’aria che tira.

Una dimostrazione lampante arriva da «Mr. Berg», unica composizione inedita a firma Menzella, che sembrerebbe uscita da un disco degli anni Sessanta: un cadenzato mid-range, un dolce swing con un senso dell’orientamento melodico straordinario, mentre il sax riesce a descrivere amori ed umori con un piglio alla Dexter Gordon. Tutto ciò non è un deminutio capitis, al contrario diventa un termometro per rilevare la temperatura creativa del sassofonista-leader e la sua aderenza ad un preciso e lapalissiano modo di vivere ed intendere il jazz, sia pure sulla base di una modularità flessibile e di un duttilità evolutiva che non recide mai il cordone ombelicale con il lineage della musica sincopata afro-americana. La conclusiva «Summertime Ago», conferma appieno l’appartenenza ad un jazz dai fondamenti stabili ed incrollabili che non teme il confronto con le ondivaghe digressione di un contemporaneità, sovente disposta al compromesso finto-jazz-poppish e alla coabitazione coatta.

Irma Sanders